Il funerale di Matteo Miotto, celebrato solennemente presso la Basilica romana di Santa Maria degli Angeli, mi ha profondamente tòccato.
Altrove ho scritto -e qui lo ripeto- che probabilmente il Caporalmaggiore Miotto, vicentino di Thiene, era maturo per il Cielo. In Chiesa si respirava certamente il dolore per la sua morte ma era assolutamente palpabile e percepibile che si stava celebrando il Funerale di una anima buona, di una persona che “ha dato tutto” e che ha “sacrificato sè stesso”.
Pur amando tanto la sua terra pare che avesse piu volte ripetuto allla madre che sentiva di dover stare laggiù, in Afghanistan, perchè sentiva fosse il suo dovere di uomo e di Soldato.
L’ordinario militare ha ricordato l’esperienza di Miotto «alla scuola di don Gnocchi», dove «Matteo aveva imparato che non possiamo dare vita ad altri senza dare la nostra vita». Matteo, ha aggiunto, «ha sempre creduto nella giustizia, nella verità e nella forza interiore della compassione, nella fiducia e nell’amore fino a dare la vita». Da questo giovane, ha concluso Pelvi, arriva un invito «a non cedere allo sconforto e alla rassegnazione».
«Il nostro Matteo è stato chiamato a partecipare all’umana solidarietà nel dolore diventando un agnello che purifica e che redime secondo l’amorosa legge di Cristo, un sacrificio offerto per il dono della pace». È uno dei passaggi dell’omelia per il rito funebre del caporalmaggiore Matteo Miotto, morto in Afghanistan il 31 dicembre, nella quale il vescovo militare Vincenzo Pelvi ha ricordato il giovane alpino.
«La sua bara, avvolta nel Tricolore, è come una piccola ma preziosa reliquia della redenzione che si rinnova nel tempo». Rivolgendosi direttamente al giovane, concludendo l’omelia, Pelvi ha detto: «carissimo Matteo, a nome della nostra patria, di tutti i tuoi amici, degli alpini, di coloro che ti hanno voluto bene e che tu hai tanto amato, noi di diciamo grazie, angelo del dolore innocente, per averci resi tutti capaci di bontà, di amore e di speranza e per avere reso più civile, più cristiana e più umana la nostra convivenza».